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mercoledì 5 novembre 2014

Giancarlo Migliola: irresistibile o insopportabile?

Nelle ultime settimane due miei amici, la cui eterosessualità è fatta salva da plurime denunce per molestie, mi hanno guardato negli occhi e detto la seguente cosa: “Gianca, se fossi una donna credo che mi innamorerei di te. Il problema è che tu sei irresistibile da single e al limite dell’insopportabile quando ti innamori”.

Per qualche minuto mi è sembrato un gran bel complimento, cinque minuti dopo la vivevo come una critica molto severa e infine mi è tornato alla mente “Il Dittatore”, ovvero il film capolavoro di Sacha Baron Cohen, e il tipo che va in ospedale a ritirare l’esito del check-up: “Guardi, le dico la verità: le sue analisi sono Aladeen”. Il problema è che il Dittatore aveva quasi completamente uniformato il vocabolario di quello Stato al suo nome e quindi Aladeen voleva dire contemporaneamente aperto, chiuso, bello, brutto, dolce, salato, ecc..

Ecco, rispetto all’amore ma soprattutto al mio turbolento modo di viverlo, io mi sento tendenzialmente Aladeen. Nel senso che vale tutto. Lasciando stare l’irresistibile (che a occhio e croce mi sembra una cazzata), a cosa mi serve essere una persona interessante se poi al momento di “vivere” un rapporto mi incasino?
E’ come segnare da 3 col 76% ma poi sbagliare sistematicamente i tiri che contano. Come sapere che a destra batti tutti ma se ti mandano a sinistra ti trasformi in una palla persa ambulante. Come saper giocare divinamente a tennis, ma solo sull’erba. Come giocare una pallacanestro meravigliosa ma non trovare il modo di attaccare la zona. Come vincere Masterchef ed essere anoressico. Come essere un eccellente sommellier e ritrovarsi astemio. Non ti serve a un cazzo. Anzi.
L’attesa disillusa ti trasmette un ingovernabile senso di incompiuto, ti fa sentire una splendida “demo” ma il problema è che in cuor tuo lo sai che la versione definitiva sarà piena di bug. E allora insicurezze, facce spente, fantasmi del passato, cicatrici che nessuno vede ma chi mi si avvicina percepisce, alla lunga.

Dunque implodo, perdo giri, smalto, rivendico con ostinazione un modello di amore che temo sia uscito di produzione. Quello matto e disperatissimo, quello dei silenzi che parlano e ti raccontano tutto, quello dei cellulari lasciati sul tavolo della cucina con la suoneria bella alta perché nulla c’è da nascondere, quello che non ti raccapezzi più, quello del darsi, tutto, sempre, senza bisogno di chiedere nulla in cambio. L’amore che provano i bambini e non quello degli adulti responsabili e tutti di un pezzo, come mi ha fatto notare tempo fa mia sorella, l’amore degli sguardi, dei cenni di intesa quasi involontari, delle mani che si sfiorano, delle canzoni cantate a squarciagola in un letto dopo aver fatto l’amore.

Inseguo quell’amore lì e quindi mi incasino.

Nella modalità “irresistibile” vivo il mondo a distanza e lo coloro tutti i giorni di (auto)ironia, gioco sciolto, provo alley-oop, smorzate, rovesciate, fuoricampo, fughe solitarie, sprint improbabili a 20 km dal traguardo. E sti cazzi se poi perdo, mi sono divertito come un matto.
In quella “insopportabile” guardo il punteggio, amministro, temo il peggio, salvo il salvabile, protesto con gli arbitri, discuto col pubblico, me la prendo con la sfortuna e divento una merda. Perché ho paura di perdere.

Ma non la faccia, sticazzi.
Ho paura di perdere la persona che amo. Quella per cui respiro.
Mi succede così di rado di innamorarmi che quando succede, vorrei essere sicuro di non sbagliare nulla. E così sbaglio tutto. La rimessa che prima eseguivo a memoria diventa una palla persa, il tiro che segnavo a occhi chiusi va un metro corto, la stop-volley di rovescio si spegne sul nastro. E la palla la voglio un po’ prima, un po’ dopo, più alta, più bassa, più forte, più lenta. Come cazzo è possibile che nessuno mi capisce? Come?
Tutto questo schifo per la fottuta paura di sbagliare, anzi di perdere.
Di perdere te.
Meglio che torni a vedere le partite dal divano, dite?
NO.

Non se ne parla, perché magari a 97 anni ma prima o poi quel tiro io lo metterò, uscendo dai blocchi, col tempo giusto, senza neanche accorgermene, col sorriso stampato sulle labbra e la stecca di Marlboro sotto al braccio.


E poi verrò a prenderti. Andrà così.

lunedì 25 agosto 2014

Gli accannamenti ai tempi di Facebook

Carnefice non sono, vegano neanche, ma insomma pure l’abito della vittima mi sta stretto.
Ecco perché non indulgerò sul fatto che diverse volte mi sia capitato di essere lasciato da una donna.

E’ successo la prima volta nel 1996, a 29 anni, e nel preciso istante in cui Angela mi ha sussurrato “Please, scansate” la mia imbattibilità sentimentale è stata interrotta per dare il via a un sinistro mash-up tra “Giochi senza Frontiere”, “Closer” e “Shining”.

La tipologia degli addii è stata poco interessante, spargimento di sangue che io ricordi non c’è stato e neanche minacce di gesti insani o tradimenti sgasati in flagrante: quando finisce una storia che abbia un minimo di vissuto la sensazione di fallimento è comune ma raramente distribuita in parti uguali.

Ci si lascia oggi come trenta anni fa, il dolore non ha conosciuto conversioni in euro e pure in HD e con 4 Mb di upload è ingestibile: c’è però un aspetto ora di cui tenere conto quando una storia si interrompe poco consensualmente, e riguarda l’utilizzo dei social network. Ai tempi miei, una volta che avevi inutilmente provato a riconquistare la tua donna (mazzo di fiori, pedinamento, scenate), chiedevi agli amici comuni di eclissarsi per qualche tempo per rimanere da solo col tuo sconforto, il tuo alcool da consumare (non io) e le tue lettere da scrivere con la penna blu (io).

Come diceva Troisi, insomma, concentrarsi sulla perdita, sui 38 uomini che nelle ultime 48 ore avevano probabilmente abusato della tua ex era più semplice: non c’erano deviazioni o scorciatoie dal tunnel dell’abbrutimento, gli occhi restavano smarriti e bassi per qualche settimana/mese e poi piano piano si ricominciava a condurre un’esistenza decorosa con un’invisibile ammaccatura in più.

Ora, lo dico per esserci passato non più di due anni fa, cosa fare con Facebook e Whatsapp è diventata una rogna che quasi equipara la desolazione affettiva, che ti sfinisce, aggiunge dolore al dolore per un tag maldestro, una foto che era meglio non vedere, uno stato equivoco, un “online” che resta lì pure alle 3.47 am.

Nello specifico, io ho agito nel modo seguente, preso tutto insieme da una forma congiunta di schizofrenia, megalomania, sindrome di Stoccolma e gomito del tennista:
Day 1, the Day After: cancello l’amicizia di lei, ovvio.
Day 2: non succede nulla di eclatante e allora verifico che i miei contenuti siano visibili anche da chi non mi è amico e restringo la privacy. Se vuole vedere come sto (e certamente lo vorrà), dovrà chiedere. In aggiunta cancello tutte le foto che ci ritraggono insieme e inserisco “Single” vicino a “Situazione sentimentale”.
Day 3: continua a non succedere nulla, mi sa che disattivo l’account: se pensa che mi sono tolto la vita, magari per dieci minuti torna a pensare a me.
Day 4: come cazzo faccio senza Facebook? Riattivo l’account ma posto la foto profilo con la mia faccia dopo aver ascoltato il greatest hits dei Pooh e quella copertina col momento del crollo delle Twin Towers.
Day 5: non voglio che lei mi pensi disperato, opto per il fotomontaggio con Copacabana alle mie spalle e un’aforisma che parla di porte che si chiudono e di fantomatici portoni che dovranno spalancarsi in giornata.
Day 6: la visita quotidiana al profilo di lei fa più male del gol di Lulic, devo smetterla ma come?
Day 7: eccola, puntuale: la pulizia etnica di tutte le persone che hanno a che fare con lei. Un vostro like del cazzo o un fottuto “ahahahahahahahahah” non varranno una mia lacrima, sia chiaro.
Day 8: a metà delle persone cancellate invio un messaggio di spiegazioni e di scuse, aggiungendo che non ho nulla di personale con loro ma che essendo la ferita ancora aperta non me la sento di rischiare ricadute gratuite. Ricevo risposte comprensive ma in sottofondo lo sento, come no, il brusio… “Mamma mia, Gianca sta ancora sotto un treno”.
Day 9: lei posta una foto di una spiaggia, la giro a un paio di hacker e a due genii di Photoshop per capire se si intraveda sulla sabbia l’ombra di una sagoma maschile. Il mio dolore è ancora tutto lì, mi faccio un po’ tenerezza ma incredibilmente il 70% del mio malessere e del mio disordine mentale dipendono da Facebook.
Day 10-50: il dolore lancinante, quello che ti devasta dentro, lascia il posto al disboscamento di emozioni, slanci, voglia di rialzare gli occhi da terra per vedere se intorno a te qualcuno meriti attenzione. L’attività su Facebook si dirada, ti aspetti che gli amici più stretti cancellino l’amicizia con la tua ex ma visto non lo fanno di loro sponte ti abbassi a chiedere loro uno straccio di tacita solidarietà. Concessa.
Day 65: chiedi nuovamente l’amicizia alla tua ex, stai ancora di merda ma così ti sembra di ristabilire un minimo di normalità nella tua vita. Le scrivi che l’odio è sparito, la disperazione pure e sul dolore ci stiamo lavorando ma che tutto sommato ti fa piacere sapere come sta. Il messaggio di risposta è scritto da almeno 6-7 diplomatici della Santa Sede, tanto sono tangibili il distacco e la formalità. Manca solo “come da colloqui telefonici intercorsi” in fondo.
Day 66: hai fatto una cazzata, ricancelli l’amicizia di lei e ti disattivi un paio di giorni da Facebook per simulare un rapimento ma soprattutto per diluire la terrificante figura di merda.
Day 100- : il vuoto d’aria è alle spalle, la storia è finita, andate in pace. Ora una volta al mese si va a controllare sulla pagina di lei per verificare eventuali novità spaventose (matrimonio, maternità, cambio di sesso, ecc.) ma tutto sommato non c’è più niente che ti possa veramente fare male. Finalmente…

Ecco, se non altro Facebook ti aiuta a capire quando veramente una persona l’hai dimenticata. Detto questo, se vi dovessi cancellare l’amicizia è solo perché avete qualche amica stronza, state tranquilli.






martedì 19 agosto 2014

Giancarlo Migliola, "Handle with Care"

Non sarebbe più facile se ognuno di noi arrivasse con un libretto delle istruzioni in dotazione? Come un frigorifero, una videocamera, un tablet. 
Sarebbe meno divertente conoscersi ma di sicuro più semplice aggiustarsi quando ci rompiamo.
Delle persone, dei silenzi, delle giornate sempre uguali.

Ecco, ho provato a buttare giù il mio di libretto, quello della versione 4.7 appena rilasciata.
Così sapete come più o meno funziono, perché alla fine gira gira siamo tutti ingranaggi.
Delicati. Fatti a mano. Frangibilissimi.

• Innanzitutto, come riconoscermi: nella mia confezione in cartone (animato) non c'è scritto "Alto" ma "Fragile" sì (cinque interventi chirurgici bastano?).

• Sopporto gli urti e non mi ribalto, sono abituato a trasportarmi e a farmi trasportare da tutti i mezzi di locomozione. Non soffro l’aereo, non soffro il mal di mare, non soffro le curve, non soffro in movimento. Soffro se sto fermo.

• Arrivato a destinazione, mi dovrai scartare ma se mi devi scartare ti prego fallo subito perché se poi mi innamoro l'essere scartato tenderà a farmi male.

• L’involucro è colorato e dalla forma irregolare pure se un po’ rotondetta ma il contenuto supera per qualità e quantità la forma: non a caso il parmigiano mi fa schifo.

• Aprirmi non sarà difficile ma ti sfuggirà il funzionamento se non provi a capire fino in fondo gli ingranaggi, le dinamiche. Posso fungere da soprammobile divertente, di quelli che ti fanno passare un quarto d’ora col sorriso sulle labbra.

• L’intermittenza è il mio segnale di riconoscimento ma se non mi alimenti col giusto voltaggio tendo a spegnermi, più che andare in stand-by.

• A proposito di alimentazione, argomento pile: li usavo anni fa ma la verità è che a Roma non fa mai abbastanza freddo.

• Montarmi, con rispetto parlando, non è difficile ma più semplice è smontarmi: con una frase detta male, un ballo “con le cuffie”, una battuta fuori posto, un “online” di tre ore su WA in attesa di un fottuto segnale.

• Non necessito di cure particolari, sono a basso mantenimento ma se mi trascuri anche la manutenzione ordinaria (acqua, olio, curry, anacardi) la modalità offline si attiva in automatico.

• La garanzia è valida sempre, anche tra 30 anni, perché immodestamente so di essere una garanzia di onestà intellettuale, una garanzia nel farmi prendere per il culo.

• Potrai riciclarmi quando vorrai sul mercato dell’usato insicuro ma tant’è, alcune paure faticano ad abbandonarmi.

• Sono già vintage, sono già modernariato, mi trovi nello shop di wired.it e al mercatino delle pulci.


• Ma soprattutto, sono innamorato della vita. E questo mi fa stare bene perché dà senso a tutto quello che vedo in un mondo che mi appartiene sempre di meno, “un mondo che piove senza nuvole, che piove anche quando è sereno”. cit. Lucio (stai stai stai…)

venerdì 13 giugno 2014

Sì, la vita è tutta un Film...

Che la mia vita sia condizionata dal mondo del cinema si può intuire con facilità dal numero di situazioni nelle quali mi ci sento dentro, a una pellicola che ho apprezzato particolarmente.
•  se vedo un jeans attillato indossato da una ragazza rotondetta, il pensiero va allo zoccolo di cammello (The Weather Man)  
•  se in treno il panorama è meraviglioso, non mi faccio condizionare dalla polvere sul vetro o dalla scritta “do not throw objects from the window” (Santa Maradona)
•  se in strada mi vengono incontro persone sorridenti a intervalli regolari, nessuno mi toglie dalla testa che siano comparse mandate sul set (The Truman Show)
•  se nel giro di mezz’ora vedo un paio di volte un ragazzo roscio, una ragazza e un cane, temo di essere psicopatico (A Beautiful Mind)
•  se vedo una tana di formiche la brucio con l’accendino, “me sta sulle palle” (Al Lupo, al Lupo);
•  se vedo tre amici con un’identica felpa rossa, il richiamo a Ben Stiller e figli è automatico (Tenenbaum)
•  quando ho la febbre a 37, penso a cosa direbbe Leonardo di fronte a quel termometro (Non ci resta che piangere);
•  se in un Ufficio Pubblico mi viene chiesto di compilare un modulo, non posso non cominciare con “Io sottoscritto, nome cognome, indirizzo, eccetera…” (A Ovest di Paperino)
•  se la donna con la quale sono a letto mi sussurra “Se facciamo l’amore, domani starò di merda” mi viene da rispondere “A me sta bene” (Hotel Chevallier)
•  se segno sulla rubrica “Foro Italico” mi viene da aggiungere “Italico Foro” (Un sacco bello)
•  quando sento dire “Ti stimo molto” visualizzo la faccia di Giorgio Pasotti (Volevo solo dormirle addosso)
•  se un autoarticolato mi fa due volte i fari e mi dà di clacson, ahia…(Duel)
•  quando faccio una smorzata, una vocina dentro mi chiede “Ma chi sei, Panatta?” (Che ne sarà di noi)
•  quello con la fascia rossa in testa, quand’è che mi guarda e mi chiede “Un colpo solo?” (Il cacciatore)
•  alla libreria“Rizzoli” di New York, sulla 57esima, ci si va solo per incontrare Meryl Streep (Innamorarsi)
•  quando mi chiedono, e succede spesso, “Perché fai così?” rispondo sempre “Fammici pensare” (Il treno per il Darjeeling)
•  quando ho scoperto di essere stato tradito, ho detto le stesse gentili parole rivolte da Clive Owen a Julia Roberts (Closer)
•  e quante volte ho sperato di poter cancellare una donna dalla mia memoria… (Eternal Sunshine…)
•  se mi chiedono che lavoro faccio, la tentazione di rispondere “elaboro progetti e strategie di comunicazione atti alla diffusione di notizie inerenti la dimensione socio-politica della pallacanestro italiana con esplicito riferimento al movimento donne” quando la risposta corretta sarebbe “metto i tabellini della Nazionale Femminile” (Tre uomini e una gamba)
•  le rare volte in cui vinco una partita alla PS4, ora mi è naturale guardare il mio avversario e pensare “Voleva vince lui, mavvaffanculo va” (Cado dalle Nubi)
•  dalla roulette di zingari parcheggiata a Viale Marconi, prima o poi esce Brad Pitt (Snatch)
•  l’ho detta, ok, un paio di volte la frase “non si va in giro a essere meravigliose se non si è disponibili” (Forget Paris)
•  quando sento l’inno americano, la testa va per forza di cose a Enrico Pallazzo (Una Pallottola spuntata)
•  all’estero, una zuppa è sempre un po’ speziata (Marrakech Express)
•  se la bottiglia è lontana dalla mia portata, prima di chiedere a qualcuno di passarmela, provo tra me e me… “Vieni qua, a te che te costa? (Ricomincio da tre)
•  se mentre mi parli leggi il menu che è scritto dietro di me, tu sei Kaiser Soze (I Soliti Sospetti)
•  quando alla fine di una riunione, importante, qualcuno chiede se ci sono domande, non lo posso fare ma la tentazione di alzare la mano per dire “Ma le famose armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, che fine hanno fatto?” ce l’ho. Sempre. (Andata+Ritorno)
•  lamentarsi la sera al letto, da soli, fa molto Harry (Harry ti presento Sally)
•  se incrocio un nano, mi sento in Belgio (In Bruges)
•  in un silenzio imbarazzato, tra amici, “E se io mi suicidassi” ci sta sempre bene (Ecce Bombo)
•  la terza volta che non mi funziona la carta di credito, controllo che non mi abbiano infilato un microfilm nella busta della Coop (Nemico Pubblico)
•  al ristorante, al quarto giro di tavolo di tre bambini indemoniati, come fai a non pensare di dire ai loro genitori, peraltro noncuranti, “ma du' schiaffi no, eh? (Manuale d’Amore)
•  quando la mattina suona per tre giorni di fila la stessa sveglia, è il giorno della Marmotta (Ricomincio da capo)
•  al sesto piano di scale, col fiatone, mi sento molto Robert Redford (A piedi nudi nel parco)
•  decido di fare una cosa ma poi momento cambio idea e faccio l’esatto contrario, che cos’è se non una Kansas City Shuffle? (Slevin–Patto Criminale)
•  McDrive, cassiere sorridente sulla quarantina. Massimo rispetto per la tua conversione, Kevin Spacey (American Beauty)


Penso di aver dato l’idea, pure troppo, di quanto sia impicciato col cinema: ora, visto che ho sbagliato quasi tutto in questi primi 46 anni, avete mica notizie di Marty McFly?

martedì 10 giugno 2014

Questa vita non è un Albergo...

Sarebbe tutto molto più semplice, come no, se funzionasse tutto come in un albergo. Se la vita fosse scandita da check-in e check-out continui rispetto alle situazioni quotidiane, se il prezzo da pagare fosse sempre decisamente più basso di quello che troviamo attaccato dietro la porta quando arriviamo.

Sarebbe tutto molto più comodo se bastasse mettere una targhetta “no disturb” per evitare scocciature, anche da chi vuole renderti un servizio, consigliarti, magari rifarti la stanza. Se fosse sufficiente togliere la chiave dalla parete per disattivarmi, spegnermi, azzerare ogni forma di energia e di luce intorno a me. Se, come per gli asciugamani lasciati a terra perché vengano lavati, fosse possibile eseguire un gesto meccanico per far capire a chi ci sta intorno che abbiamo bisogno di attenzioni, cure, pulizia intellettuale. Se fosse possibile consumare caffè, emozioni e paure senza pagare all’istante ma dando un numero di stanza e rimandando tutto a quando ce ne dovremo andare, ma chissenefrega quando. Mi prendo tutto quello che voglio e non ci penso, ora.

Sarebbe tutto molto più comodo se un ambiente per rilassarci e uno per sfinirci di fatica fossero a portata di bottone da premere in ascensore, se come in una hall affollata ci si salutasse tutti con un sorriso ma poi non fosse obbligatorio conoscersi per non rischiare di passare per quello che si fa i cazzi suoi. Se tutto lo sporco che ci portiamo dentro fosse sufficiente infilarlo in una busta di plastica bianca per ritrovarci il giorno dopo profumati e stirati. Se la temperatura del nostro cuore fosse regolabile con un interruttore a prova di bimbo, per scongiurare il rischio di infiammazioni, congelamenti, black-out.

Se gli extra fossero talvolta inclusi, se la personalità potesse essere doppia ma uso singola, se si potesse guardare tutto quello che si vuole (persone, tramonti, bugie, storie del cazzo, amori sfumati) potendo avvalersi dell’anonimato.

Se avessi la certezza che anche nei momenti più complicati potrei trovare, nella reception, 24h, qualcuno pronto ad aprirmi una porta, a farmi un sorriso e magari anche un caffè macchiato freddo.

Sarebbe tutto molto più semplice, come no, se funzionasse tutto come in un albergo.
Ma ora, siate buoni, datemi una stanza vista amare che di muri grigi e last minute non ne posso veramente più…


mercoledì 9 aprile 2014

La MIA New York, dietro la Brigata dei Pompieri ma davanti a Spongebob

Riparto da New York senza aver ancora capito se i quattro giorni trascorsi da solo a cavallo della Trentunesima (che poi detto così…) siano durati quattro anni o quattro minuti. D’altra parte non avevo neanche chiaro se in questi giorni volessi perdermi o ritrovarmi e allora quando è così New York è il posto perfetto perché di suo tende a non darti punti di riferimento, strade parallele e perpendicolari a parte.

New York è tutto e niente, è miseria e nobiltà, è orgoglio e pregiudizio, è Simon e Garfunkel: rimane aperta 24h ma ti fa vedere le vetrine colorate, se sei un cazzo di turista dentro non ti fa mica entrare. In questi giorni non ho visitato un museo, un teatro, una Statua della Libertà, un grattacielo. Ho però camminato fino a sfinirmi attraverso Avenue e Street, spesso sbagliando strada e quindi ritrovandomi in situazioni già vissute, metafora che peraltro mi perseguita da 46 anni. Ho bevuto un succo di lamponi, pere, carote e malva 100% bio-organic nel cuore di Chelsea con due uomini di mezza età che si baciavano teneramente e mezzo blocco dopo ho dovuto spiegare a una cinese che il suo sex message non mi interessava.

Ho visto albe e tramonti, ho preso acqua sulla Fifth Avenue e sole a Central Park, mi sono regalato Ground Zero di domenica sera alle 23.00, deserto surreale e commovente, cercando senza esito di ricordarmi il monologo di Edward Norton de “La 25a Ora”. Mi sono perso e ritrovato ogni dieci minuti nel pirotecnico vuoto pneumatico di una città che non ti lascia mai solo ma che non ti fa mai compagnia. Proprio quello che volevo, il motivo per il quale ora sono a 11.788 metri, sull’aereo che per la sesta volta mi riporta a casa da JFK, e già sto pensando a quando potrò tornare. Avere un milione di opportunità, non coglierne una senza qualcuno che ti presenta il conto per questo. Tornerò, presto: per continuare a non vedere nulla e a sentire tutto, a torturare la carta di credito, a sorprendermi ancora per il “total refill” nei fast food o per l’assenza di compromessi di una città che ti ubriaca di sorrisi dai denti bianchissimi, di “enjoy” e di “appreciate” e poi ti risveglia col dito medio di un tassista pakistano furente perché non cammini sul marciapiede.

New York mi spiazza, col crossover suoni-luci-colori-razze-odori che ti fa perdere l’equilibrio, ti disorienta e ti manda al tappeto. E allora io per evitare che l’arbitro mi conti cammino per ore, giorni, a vuoto, a caso, nelle strade dove tutto è saturo: incamero emozioni, incasso clacson, metabolizzo burriti, schivo a fatica foto con Capitan America ma soprattutto non mi stanco mai. Non mi annoio mai, forse perché a ogni angolo ritrovo citazioni cinematografiche a me care. Non mi stanco di emozionarmi al cospetto di questo nulla cosmico, all’opportunità che New York ti concede di non ritrovare a distanza di pochi giorni le stesse persone, gli stessi odori, lo stesso clima, la stessa luce. Tutto è diverso eppure tutto sembra identico.

Io, tra Battery Park e il Queens, mi ritrovo. Sempre, spontaneamente, finalmente: mi ritrovo perché so di riconoscere la confusione, le luci intermittenti, i vuoti e le contraddizioni che day by day popolano la mia testa.

Ecco perché New York è casa mia.
“Mi prendo questa realizzazione all'americana, è qui che vivo, dietro la Brigata dei Pompieri 47, bene, ma davanti a Spongebob: Hello America!” The Weatherman

martedì 14 gennaio 2014

Il rapporto causa-effetto esiste, dunque...

Ecco, ho sempre conservato un regale distacco dalle cose reali, un senso di superiorità rispetto ai fatti che senza alcuno slancio poetico accadono solo perché generate da una serie di cause. Già ai tempi delle scuole elementari e delle medie ricordo la netta percezione di “privilegiato”, uno a cui le cose venivano naturalmente, a cui la vita avrebbe sorriso spontaneamente, senza fatica. Bastava lasciarsi andare, seguire il flusso degli eventi, farsi una corsa a perdifiato e ascoltare “Love Games” dei Level 42, non irrigidirsi mai in schemi e le cose sarebbero filate per il verso giusto, seguendo un piano inclinato miracolosamente favorevole.

Se studiavo poco mi salvavo con la dialettica e con la classica faccia da paraculo mezzo intellettualoide che più tardi si è rivelata essere la rovina di questo Paese. Poi magari facevo passare un mese senza andare a scuola e quasi mi sorprendevo che dopo settimane di “seghe” (con rispetto parlando) qualcuno chiamasse casa per sapere che razza di fine avessi fatto. La speranza che in un modo o nell’altro le cose si mettessero a posto da sole mi ha confortato anche nei miei approcci col mondo del lavoro, quando un paio di maestri di vita capitolini che ancora porto nel cuore mi avevano trasmesso una strategia che nel 70% dei casi si rivelava vincente: c’è un problema, anche grave, da risolvere? Non ti affannare, prendi tempo, guadagna un fallo laterale, vai sulla bandierina e vedrai che alla ripresa del gioco tutto si sarà risolto. Così accadeva che fossi chiamato ad apportare modifiche complicate a una procedura e due mattine dopo veniva invece deciso di sviluppare (da altri) un sistema informatico ex novo, piuttosto che correggere il mio. Insomma, ero arrivato a pensare che lo stellone che (per motivi avvolti nel mistero) avrebbe dovuto illuminare la mia esistenza pretendeva da parte mia solo istinto e fiducia incondizionata, mentre pragmatismo e dedizione avrebbero compromesso la magia. Non a caso, anzi a caso, mi ero ritrovato assunto come giornalista a Superbasket dopo sette anni di Coast to Coast, senza mandare un curriculum, senza diventare pubblicista, senza fare un colloquio.

Il fatto che a 15 anni avessi già vinto lo scudetto con la Roma (quello precedente era datato 1942…) e la Coppa dei Campioni col Bancoroma, oltre a un Mondiale di calcio, imponevano giocoforza su di me le stimmate del predestinato sculato. Le cose non accadevano quando me le aspettavo, anzi dovevo allontanarmi affinché si compissero: in estate, ad esempio, attendevo l’arrivo dei miei genitori a Massa Martana appostato in un curvone a 500 metri da casa. Io ero in vacanza, loro lavoravano a Roma e ci raggiungevano nel weekend: oltre al piacere di rivederli, l’attesa era resa snervante dalla squadra di Subbuteo che normalmente mamma Luisa soleva portare in dote. Ricordo pomeriggi assolatissimi che manco Salvatores, in attesa di vedere il muso della Taunus bianca spuntare sul rettilineo: niente, niente, niente. Era impossibile che in quel preciso istante in cui guardavo la strada, una macchina bianca con dentro le persone che a quanto si diceva in giro mi avevano messo al mondo, apparisse. Impossibile. Passavano 128, Renault 5, 850, tutti i modelli e tutti i colori ma non la Taunus. Così dopo ore di attesa angosciante riprendevo la bicicletta e tornavo verso casa: qualche secondo dopo, puntuale il clacson della defunta Taunus mi avvisava dell’imminente sorpasso e del conseguente arrivo del Penarol (maglia giallonera lucida, opera d’arte). Le cose che volevo accadevano quindi con regolarità, anche in amore: cercarle avrebbe complicato i piani, la mia dea era bendata ma non voleva rotture di cazzo. 

Poi però, come dice l’immenso Bart di Santa Maradona, succede che invecchiando si tende a smarrire la mira e le situazioni si complicano, quello che prima succedeva naturalmente inizia a necessitare di sacrifici, di progetti, di espedienti e allora spesso si finisce per andare fuori tema, fuori pista, fuori giri. Così ti accorgi che c’è, sì che c’è, un cazzo di rapporto causa-effetto che regola davvero la vita di tutti i giorni, pure se tu l’hai sempre negato e quindi se non metti benzina dopo 50 chilometri di riserva la tua vettura tende a fermarsi anche se sei in autostrada, così succede che se mangi gli asparagi poi la tua pipì puzza per giorni e allora è vero che esiste una relazione tra ciò di cui ci alimentiamo e il nostro organismo. Così, soprattutto, ti accorgi a 46 anni che la tua (fottutissima) presunta immarcabilità sentimentale è andata a farsi benedire e che le tue storie, anche le più emozionanti, si sono spesso arrugginite perché tu hai commesso degli errori, perché ti sei illuso che i tuoi sbagli non avessero dirette conseguenze sullo stato di salute delle relazioni stesse.

Così non è stato e ora la poco simpatica impressione è che le cose belle, quelle che da piccolo chiamavo Arditt Ardott senza che nessuno ne capisse il motivo, non tornino più: né se aspetto la Taunus sotto il sole di Massa Martana, né se capitano senza che io faccia nulla, come quell’indimenticabile Mondiale ’82 di Paolo Rossi e Bruno Conti. E mo’?